Le baby gang a Napoli sono le peggiori d’Italia

Un’intervista realizzata per “la Stampa” da Antonio Emanuele Piedimonte a Maria Luisa Iavarone toglie il velo ad un dato che appare evidente. Nell’area napoletana la presenza di baby gang rende intere cittadine e pezzi dello stesso capoluogo come le peggiori d’Italia. Ogni tre giorni viene sequestrata un’arma da fuoco. Riportiamo integralmente qui l’intervista di Antonio Emanuele Piedimonte a Maria Luisa Iavarone autrice, tra latro di un libro dal titolo “Ragazzi che sparano“.


Per almeno tre buone ragioni Maria Luisa Iavarone è la persona che più di altre può dire qualcosa sull’emergenza minorile nel Napoletano. Nell’ordine: è una mamma che ha visto il proprio figlio ridotto in fin di vita da una baby gang, è una docente universitaria che insegna Pedagogia, è una studiosa che solo tre mesi fa ha pubblicato un saggio intitolato «Ragazzi che sparano» (Franco Angeli editore), dedicato per l’appunto alla piaga della criminalità giovanile nell’area partenopea.

La professoressa inquadra per La Stampa la «questione adolescenziale» (definizione sua, n.d.r.), un problema sempre più angoscioso e invasivo che ha attraversato i secoli (basta sfogliare i quotidiani del tempo) sino ad arrivare a quelli che si possono considerare gli scugnizzi del Terzo millennio, ragazzini di strada come i loro predecessori ma più feroci, più pericolosi.

Nel giorno dei funerali e del lutto cittadino per Giovanbattista «Giogiò» Cutolo, il giovane musicista barbaramente ammazzato a colpi di pistola da un 17enne mentre difendeva la fidanzata dall’aggressione di un branco di balordi quasi tutti minorenni, non si può non cominciare da quest’ennesima tragedia.

Oggi l’addio al talentuoso concertista, quattro mesi fa Francesco Pio ammazzato senza motivo agli chalet di Mergellina. E prima di lui Giovanni Guarino ucciso a Torre del Greco da un 14enne e un 15enne. Che effetto le fa questo bollettino?
«Sono tristemente informata dei fatti. E, come può immaginare, sono sempre in trincea. Ogni volta rivivo il dolore. Lo strazio di quei giorni con mio figlio quasi morto in ospedale».

Come sta Arturo?
«Ieri mi ha detto che andrà al funerale del giovane musicista. Sta come può stare un ragazzo che un pomeriggio, a pochi giorni dal Natale, scende di casa e viene aggredito senza motivo, preso a coltellate in una strada affollata del centro. È passato del tempo, è cresciuto ma certe cose lasciano una traccia profonda. Come ha detto lui una volta: non si può cancellare l’incancellabile. E d’altronde è giusto che le cicatrici restino visibili».

Professoressa, che succede ai ragazzi di Napoli?
«Intanto che girano armati come pochi altri al mondo. Lo sa che la stessa notte in cui è morto il povero Giovanbattista ci sono state due “stese” proprio nei Quartieri Spagnoli? In questa città si spara quasi tutte le notti, e i protagonisti sono quasi sempre minorenni. Il più triste dei primati».

Uno scenario a dir poco inquietante e una questione non ancora adeguatamente esplorata né studiata.
«Scenario che non disegno io. Secondo gli ultimi report del Gruppo interforze solo nell’area partenopea ogni 3 giorni viene sequestrata un’arma da fuoco. E stando al rapporto «Fire» (Fighting illicit firearms trafficking routes and actors at european level) dell’Unione europea, pubblicato dal Centro Transcrime dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, l’area metropolitana di Napoli è la prima in Europa per l’uso di armi da sparo da parte di minorenni. E non solo…».

Non solo? Che c’è di peggio di essere i primi in Europa per il crimine minorile?
«C’è essere secondi al mondo. Fatte le debite proporzioni, infatti, hanno calcolato che in quanto a ragazzi armati peggio della metroarea di Napoli ci sono solo i Paesi sudamericani».

Si sarà chiesta perché l’area napoletana tende a primeggiare…
«La risposta sarebbe troppo vasta per un articolo, mi limiterò ad alcuni punti nodali. Diciamo subito che altrove i minori hanno bisogno di un’arma da sparo generalmente per compiere una rapina e poco altro, qui invece si hanno svariati motivi e, soprattutto, qui i ragazzi sono armati dalla camorra come in nessun altro luogo d’Europa (abbiamo anche il record di numero di clan). Inoltre non dimentichiamo che l’arma conferisce status, potere. E dunque sono diversi i reati così come gli utilizzi».

Ne ricordiamo qualcuno?
«Il ventaglio è ampio, una vasta gamma. Si va dalle cosiddette “stese”, che servono a marcare il predominio territoriale alle più classiche estorsioni: gli adolescenti che vengono inviati dal boss a riscuotere il pizzo portano sempre una pistola. E d’altro canto la legge non prevede l’arresto per un ragazzo che se va in giro con una pistola sotto il sedile dello scooter. Anzi, nella maggior parte dei casi non viene neppure fermato».

Una pacchia per i clan.
«Pensi solo alle “sentinelle”, un esercito di ragazzini messi a sorvegliare le piazze di spaccio. Fino a qualche giorno il primo riferimento era il “Parco Verde” di Caivano che aveva ereditato il mercato di Scampia, ora sta diventando il Rione Salicelle di Afragola (noto anche come il “Parco degli invisibili” per le violenze sessuali sui bambini, ndr) dove le consegne a domicilio le fanno i minori armati. Un business per tutti».

In che senso?
«Nel senso che le sentinelle ora guadagnano mille euro a settimana. Una parte va in abiti, scarpe e altre cose destinate all’immagine, cioè ai video sui social, e il resto lo danno alla mamma, alla famiglia. E questo spiega anche perché i parenti li difendono sempre e comunque».

La famiglia, il punto più dolente di tutti.
«Non a caso si parla di devianza (grave) stratificata e povertà educativa. In molti di questi ragazzi si registra un vero e proprio black out di coscienza. Un deficit di pensiero morale che si è formato nella seconda infanzia (6-7 anni), cioè il periodo durante il quale si comprende la differenza tra il bene e il male, il lecito e l’illecito, il giusto e lo sbagliato».

Attori inconsapevoli e perciò irrecuperabili?
«No, ma servirebbero interventi articolati quanto drastici. Bisognerebbe eradicarli dal loro territorio, allontanarli dalle famiglie, fargli sperimentare altri contesti, altre realtà, un po’ come si fa con i tossicodipendenti. I quartieri dove vivono sono criminogeni, abbiamo raccolto tante interviste (per il libro, ndr) tra i giovani detenuti e tutti hanno ribadito lo stesso concetto: “mi salvo solo se me vado dal quartiere”».

Una città criminogena, ma la giustizia minorile? Eduardo De Filippo si battè a lungo per i ragazzi del Filangieri e di Nisida, e con lui tanti intellettuali degli anni Settanta.
«Le dico solo che negli istituti di pena campani la recidiva arriva a toccare il 63%. Significa che la maggior parte dei ragazzi una volta tornati in libertà tornano a delinquere. E d’altronde non potrebbe essere altrimenti, il problema non si risolve con qualche corso di cucina. Lo Stato spende 40 milioni di euro all’anno ma l’emergenza è sempre la stessa».

Emergenza-storica, uno dei tanti ossimori di Napoli, terra di frenetica immobilità e dolorosi paradossi. Il mare fuori e il buio dentro, da qualche anno le fiction sono spesso (anche troppo) al centro del dibattito, lei cosa ne pensa?
«“Mare fuori” mi pare davvero pessima, sicuramente peggiore di “Gomorra”: lì almeno il quadro è reso con maggior coerenza. La Rai come servizio pubblico non dovrebbe far passare questo messaggio devastante, l’iperbole del mondo della devianza. È un’operazione gravemente disvaloriale».

Un giudizio severo.
«Non voglio entrare nel merito della qualità di scrittura o delle capacità registiche, dico solo che si tratta di una rappresentazione pericolosamente distorta. Hanno la pretesa di raccontare la rieducazione ma quello che viene fuori è che il mondo degli adulti fa sempre una brutta figura, i genitori come gli addetti ai lavori, franano tutti, appaiono come minimo inadeguati, un fallimento totale. E dall’altro lato, poi, c’è una scelta di finzione che mi pare opinabile, ma lei lo sa che a Nisida non ci sono detenute? E le pare che se anche ci fossero state il carcere avrebbero permesso a ragazzi e ragazze di stare assieme? A questo proposito aggiungo un altro dato (reale) che dovrebbe fa riflettere: circa il 70% dei ragazzi ospitati nell’istituto penale minorile napoletano (quelle vero), sono già padri».

Maria Luisa Iavarone

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