Complice un libro ed un anniversario, quello di ieri, 19 luglio 2020. Il libro, invece, ha un titolo emblematico: “Il patto sporco” e lo ha scritto Saverio Lodato, un giornalista serio che della mafia ha memoria storica e mille racconti. Quest’ultimo, lungo quando un libro, lo ha raccolto da un magistrato di tutto rispetto: Nino Di Matteo che ha seguito ed indagato a fondo sulla trattativa Stato/mafia.
«C’è voluta – ha commentato Saverio Lodato – la falce del virus per spazzare via, almeno fino a nuovo ordine, la retorica più praticata in Italia, quella contro la mafia e i suoi rappresentanti; quella degli anniversari pesanti, sanciti da calendari che da decenni fanno da ricettacolo per la celebrazione dell’ipocrisia da parte di un Paese, l’Italia, che mentre celebra la sua irriducibilità, in realtà si adegua, tollera, scende a patti, convive e tira avanti. Restano ormai pochissime cose da dire in vista del prossimo anniversario della strage di via d’Amelio. Sono trascorsi ventotto anni.
Paolo Borsellino, Manuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano, che da vivi furono traditi e assassinati, furono nuovamente traditi da morti, e finalmente, con buona pace di tutti, dimenticati. E non è che in questo trentennio fossero mancati i proclami o non si fossero schierate in campo le “divisioni del bene”. Non è che in questo trentennio fossero state risparmiate parole di condanna e denuncia di quanto accadde. Sono rimaste le immagini di strade e palazzi sventrati, questo sì. Lo scempio, anche visivo, di quel lontanissimo 19 luglio 1992, è gelosamente custodito nelle teche delle televisioni, che a ondate ricorrenti, anche se con scopi differenti, lo ripropongono.
E neanche è da dire che la magistratura non abbia cercato di fare il suo corso.
Ma sono i tempi che stravolgono tutto, se è vero che ancora oggi ci sono processi aperti, apertissimi. Ma verrebbe da dire: troppo “aperti”, quindi troppo insoluti, visto che sono trascorsi questi fatidici 28 anni. Il fatto è che la retorica poteva andar bene – semmai – per coprire il primo tratto di strada. Poi, sarebbero dovute subentrare le scelte politiche e di rigore, le volontà radicali, le consapevolezze della necessità di voltar pagina per sempre; in una parola sarebbe dovuta subentrare la certezza che un Paese che galleggia su un mare di sangue irrisolto, sarà sempre destinato a un magro futuro. Ma come si fa? Come si poteva fare? Visto e considerato che ormai persino i sassi hanno capito che Paolo Borsellino firmò la sua condanna a morte, quando, messo davanti alla trattativa che era già in atto fra lo Stato e la Mafia, pronunciò il suo “non ci sto”. Divenne un inconsapevole intralcio istituzionale, Paolo Borsellino.
Rischiava, con la sua figura limpida, il suo spessore giudiziario, le sue conoscenze investigative, di scoperchiare persino il calderone ribollente, appena esondato, con la strage di Capaci.
Lui ripartiva da Giovanni Falcone, e dalla ricerca dei perché del suo sacrificio.
Due Chernobyl, separate appena da 57 giorni.
Due Chernobyl, per la legalità e il rispetto della legge, il diritto di tutti alla convivenza pacifica; l’esatto contrario, appunto, delle guerre per stragi.
Così, in questi ventotto anni, abbiamo assistito a micidiali colate di cemento sulla verità.
Così, si spiega la asfissiante situazione di oggi.
Tutti hanno capito cosa accadde in via d’Amelio.
E perché la verità non sia mai arrivata: in giro, ci sono ancora troppe persone vive, che allora ebbero posti apicali e di comando.
Non è un caso. I giornali italiani non scrivono una parola di cronaca sulle udienze che si susseguono, a Palermo, del processo d’appello per la Trattativa Stato-Mafia e che, quanto prima, arriverà a sentenza.
Meno se ne parla, e meglio è. Ecco perché diciamo che Borsellino non deve avere giustizia. Altrimenti, almeno i giornali e le televisioni farebbero il loro mestiere.
Tutto è di una chiarezza esemplare.»