Iddu è il film sulla vita di Matteo Messina Denaro di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia che a Venezia ha fatto in anteprima il suo esordio è arrivato dal 10 ottobre nelle sale cinematografiche in molte parti d’Italia e assieme ad una platea che resta entusiasta dopo la visione che ne ha fatto ve ne un’altra che riflette, giudica, distingue, elogia o pone interrogativi. Un film che fa riflettere, che porta al grande pubblico l’attenzione su una figura controversa della quale l’opinione pubblica si è accorta tardi della sua pericolosità. Su tutto e tutti restano magistrali le interpretazioni degli attori, Servillo dapprima, che hanno reso un grande servigio all’arte cinematografica. Da “cineforum” abbiamo voluto riportare così la lucida recensione che ne ha fatto Massimo Lastrucci.
di massimo lastrucci
Leggere il mondo criminale più ritualizzato del profondo sud con angolature surrealiste, oniriche, fiabesche, senza rinunciare all’indignazione di fondo. Una intuizione del palermitano Fabio Grassadonia e del milanese Antonio Piazza che ha già generato due piccoli e preziosi gioiellini, Salvo (2013) e Sicilian Ghost Story (2017). Ora replicano, modificandone (ma solo in parte) l’angolatura poetica. Iddu (in italiano: “egli” o “lui”) racconta, parafrasando ma non tanto (“La realtà è un punto di partenza, non una destinazione“: dichiara l’incipit del film), la storia della caccia al boss mafioso Matteo Messina Denaro, dal 1993 nella top ten dei latitanti più ricercati del mondo. Una indagine lungo la pista dei “pizzini” (i fogli scritti e fatti avere “manualmente” ai destinatari) e che obbliga un vecchio politico appena uscito dal carcere, indebitato e tenuto sotto scacco dai servizi segreti (anche con promesse e lusinghe) a mettersi in contatto per tendergli così una trappola. La fiction, per tenersi la fantasia libera, ne cambia i nomi, ma chi vuole intendere intende benissimo. Matteo (solo il nome ma tutti si riferiscono a lui come Iddu e noi comunque sappiamo chi è) lo interpreta un Elio Germano particolarmente efficace quando può fare ruoli torvi e subdoli (presente America Latina e Palazzina Laf o il lontano televisivo Faccia d’angelo?) mentre l’ex sindaco di Castelvetrano (perchè è a lui che si allude) Antonio Vaccarino si trasforma nel grottesco Catello Palumbo, ovvero Toni Servillo che giustifica la sua intercalata campana (da farsa alla Scarpetta) col fatto di essere originario di Castellamare, truccato con pochi capelli radi tinti di rosso mattone che fan da riporto, a connotare da subito la coloritura buffonesca (peraltro piuttosto deliziosi i suoi scambi verbali con una moglie – Betty Pedrazzi – resa spiritosamente cinica: «l’intelligenza è una dote sopravvalutata»).
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Da una parte deformazioni caricaturali da macchietta folkloristica e poi di colpo esplosioni di violenza; dialoghi da commedia e situazioni teatrali, ora buffe ora isteriche, contrapposti alla fosca, rabbiosa, disperazione di un uomo che vive praticamente segregato in un vano messogli a disposizione da un’amica vedova (una Barbora Bobulova dal comportamento riservato sino all’enigmaticità) e che passa il tempo dettando pizzini e cercando di completare un puzzle della Sicilia. I servizi segreti, come tradizione vuole, forse sanno di più di quel che dicono mentre il “libero prigioniero” è tormentato da un passato di ricordi sanguinosi, con un padre che ancora ritorna in forma di fantasma a intorbidire ancor più un criminale tutt’altro che ignorante, anzi piuttosto perspicace e capace di citare con proprietà la Bibbia («Felice è chi non è ancora nato. E non ha visto le malvagità che si commettono sulla Terra sotto il sole – dall’Ecclesiaste – E in Sicilia il sole c’è!» ).
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Una ulteriore chiave di interpretazione estetica l’aggiunge poi una colonna sonora che usa spesso strumenti e ritmi del nostro cinema politico (poi esondato nel poliziottesco) dei ’70, spiegone finale, inevitabilmente moralistico, compreso. Il problema però è, forse, che proprio di quel cinema evocato se vogliamo anche nel sottotitolo (“L’ultimo Padrino”) Iddu difetta sia di quella, magari grezza ma spiccia, velocità melodrammatica narrativa, sia di quella vitalità che faceva passare in cavalleria un po’ tutti gli eventuali difetti.